Simon Di Dio e la storia del suo cantautorato

01 Ottobre 2022 Artisti Commenti
Intervistiamo il cantautore di Pradalunga nato in Germania, trasferitosi in Sicilia e poi approdato in terra orobica

Simon, intanto bel cognome che hai! Ti ha portato fortuna? ☺

Grazie, Arianna!
Effettivamente potrebbe sembrare un cognome "impegnativo" da portare. In generale non credo nella fortuna ma, sì, vado fiero del cognome che porto ☺.

La tua passione per la musica è insita nel sangue: tua madre è pianista e tuo padre appartiene a una famiglia di otto fratelli tutti cantanti o musicisti di professione. Mi dicevi che questa la consideri un'arma a doppio taglio. Vuoi spiegarci perché?

Crescere a contatto con la musica "nel sangue" ha creato una specie di rapporto viscerale tra me e lei. Il fatto di appartenere a una famiglia di musicisti è stato un'arma a doppio taglio perché, se da una parte ho avuto la grande fortuna di essere sensibilizzato sin dai primi giorni a conoscere e vivere profondamente la musica come parte integrante della vita, dall'altra sono cresciuto con la convinzione che io provassi cose che gli altri non provavano, che io fossi "speciale" o addirittura che la musica mi appartenesse per un qualche "diritto divino". Ovviamente parliamo di pensieri del me "ragazzino". Crescendo scopro che non è così, scopro che la musica colpisce gli altri in modi simili o diversi da me, ma con le stesse dinamiche, scopro di non avere nulla di "speciale" e questo ha tolto un po' quel velo di sciocca convinzione di poter possedere la musica. Dunque crescita, confronto, errori, consapevolezza; passo dopo passo il mio rapporto con la musica ha trovato una stabilità meravigliosa, dove l'unica cosa che conta sono le emozioni che io riesco a provare o far provare, dove non esiste nessuna gara, nessun confronto e nessun possesso.

Tu suoni il pianoforte e la chitarra e, guarda caso, sono i due strumenti che conservi in casa quale eredità del nonno materno, quello della Germania. Che valore hanno per te?

Sai, i ricordi di un'infanzia felice fanno parte di quel substrato che alimenta il nostro benessere in età adulta. Ecco! Quel pianoforte a muro e quella chitarra sono due emblemi; veri e propri simboli e mezzi potentissimi di collegamento al passato. Per me sono le prime forti emozioni, il sapore della gioia e della scoperta, il mio innamorarmi follemente della musica, la sensazione di felicità, di com'è bello stare a casa in famiglia, le sere d'estate passate a cantare. E anche se probabilmente questi ricordi sono idealizzati, rivisitati e distorti dal mio essere adulto, quei due strumenti musicali servono a tenere viva la mia identità primaria, la mia eredità genetica, frammentata e sbiadita dal tempo. Quei due strumenti sono lì, testimoni immobili di chi ero e di chi sono diventato, amici pronti a darmi momenti di serenità esorcizzando tristezza e nostalgia.

Passiamo alla tua musica. Tu componi i tuoi pezzi quando arriva il flow. Non riesci proprio a costruirli ad hoc. Mi dicevi che, nel momento in cui arriva quell'ispirazione improvvisa, ti senti come un fiume in piena che non riesce a fermarsi finché non ha partorito ciò che gli frullava in testa. Quanto ti caricano, a livello umano, questi momenti pieni di energia "poetica"?

Hai detto bene. Le volte che mi sono seduto dicendomi "adesso scriverò un brano bellissimo", quel mio essere cerebrale ha ucciso ogni forma di creatività. L'ispirazione invece arriva inaspettata, come un raptus, un "flow", come giustamente lo descrivi; un vero e proprio flusso di parole e note che sembrano prendere forma da sole, potenti e violente come uno tsunami. Quando accade, è una sensazione stupenda, impagabile, inspiegabile.

Nel 2020 esce il tuo album d'esordio: Tempo. In esso possiamo ascoltare una commistione di vari generi, dal pop al folk, dal reggae per poi passare a musiche in cui ritroviamo il tuo background siciliano e il tuo dialetto d'origine. Questo è quindi un chiaro esempio di "anarchia generativa", visto che ti sei sempre rifiutato di essere etichettato con un genere ben definito e univoco. Ci vuoi spiegare la tua idea di musica?

Le etichette, in genere, mi stanno molto strette. Credo che siano un modo silenzioso per uccidere la creatività e la libertà d'espressione. È ormai usanza che un artista venga assegnato a una categoria o a un genere; è necessario, per gli altri, sapere se sei un cantante, uno scultore o un pittore. Non puoi essere tutt'e tre le cose.
Allora cos'è Simon Di Dio? Un cantante Reggae? Pop? Rock? Non sono, forse, tre facce diverse della stessa luna o "forme" diverse della stessa arte? E dove sta scritto che non possano coesistere nello stesso artista? Ecco che un mercato discografico, insieme a questa idea comune, che ti impongono, in qualche modo, di avere un genere "riconoscibile" perché così "vendi meglio", uccidono la creatività dell'artista. E io mi rifiuto di esprimermi dentro questo tipo di gabbia, incasellato, inquadrato all'origine, omologato.
Quando scrivo una canzone, soddisfacendo un mio bisogno di espressione, seguo le emozioni del momento. Se l'opera in questione è una canzone triste e nostalgica, scritta mentre fuori nevica, in una fredda serata d'inverno, mentre sono lontano da casa, allora ciò che mi serve è un pianoforte che accompagni la mia voce, senza aggiunta alcuna, e il risultato sarà la canzone Respiro. Se, invece, sto cantando parole d'amore, leggere e pure, con occhi sognanti, allora mi servirà un jazz leggerissimo, che sembri quasi un soffio, una carezza. Così è stato per Come Musica.

In Anima Trinacria hai addirittura coinvolto un'orchestra di sessanta elementi. Un lavoro durato ben un anno, ma che ti ha dato forse la tua soddisfazione più grande. Hai fatto diventare matti Leandro Firetto , polistrumentista e compositore, e Giorgio Canini, il tuo produttore e sound engineering del 1901 Studio di Alzano Lombardo . Quanto conta per te aver trovato uno staff che soddisfi la tua vena compositiva fino ad arrivare all'accettazione delle tue "pazzie" ideative?

Sono incredibilmente grato di aver trovato Leandro e Giorgio sul mio cammino, perché nulla di ciò che avevo pensato sarebbe diventato reale. E il fatto che loro abbiano dato questa forma ai miei desideri, capendo esattamente dove volevo arrivare, mi emoziona molto. Mi vengono in mente le parole di Renato Guttuso, grande artista, nonché mio conterraneo, che diceva: "Un artista parla delle cose che conosce, delle cose che sa, delle cose con le quali ha vissuto una comunione profonda da sempre, da quando non era neppure cosciente. Quindi il mio legame con la Sicilia è così profondo che viene fuori... quando si dice qualche cosa di vero, di profondo, questo diventa sempre universale". Leandro e Giorgio sono riusciti a capire esattamente ciò che intendevo esprimere, mettendo in musica odori e sapori della mia terra, il mio legame ancestrale e i miei sentimenti più profondi.

La ballata dell'Infermiere nasce durante gli anni di studio all'Università ma si concretizza, due anni dopo l'uscita del tuo primo album, con la sua pubblicazione. Si tratta di un racconto divertente e al contempo esorcizzante del tuo lavoro: l'infermiere. Tu hai vissuto in prima linea la tragedia del Covid nel reparto di Pneumologia del Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?

L'esperienza COVID, vissuta in prima fila, è stata davvero traumatica e ha lasciato segni indelebili nella memoria e nel cuore. Ricordo che noi tutti abbiamo lavorato con professionalità e incredibile spirito di sacrificio.
Ma nel periodo di pandemia mi irritava parecchio il modo romanzato degli italiani di raccontare la storia dell'Infermiere "Eroe", perché sapevo che, una volta spenti i riflettori, egli sarebbe ritornato subito nel dimenticatoio. E così è stato.
Finita la pandemia, tutte le proteste e le richieste d'aiuto della classe infermieristica sono state dimenticate. Ecco che La Ballata Dell'Infermiere arriva come mezzo di protesta. Non mi definirei un'attivista, ma ho notato che pochissimi hanno affrontato questo tema in modo "sincero". Per questo motivo ho deciso di fare la mia parte, componendo questo pezzo, cercando di raccontare in maniera ironica tutto ciò che succede durante un turno di lavoro (lo stress, i ritmi incalzanti, le ampie competenze necessarie, i rischi che si corrono), per poi passare a citare satiricamente gli aspetti della professione che andrebbero rivisti. Sono molto contento di quest'opera perché, ancora una volta, è uscita spontanea e selvaggia. E voglio continuare così.

Passiamo alle "Bergamodomande"
1 maggio 2016: il tuo primo giorno in terra orobica, esattamente a laurà proprio durante la festa del lavoro (e non avevo dubbi che a Bergamo potessi iniziare così…ahahahah) in una casa di riposo della Bassa bergamasca. Mi dicevi che il primo impatto a livello linguistico è stato traumatico perché tutti i vecchietti parlavano solo bergamasco, tu che "al massimo" parlavi italiano e siciliano. Come hai risolto questo "piccolo" problema? ☺

In realtà sono un grandissimo appassionato di dialetti. Il dialetto ha enormi risorse espressive e anche quello bergamasco mi ha appassionato da subito, per la fonetica e per i modi di dire coloriti (qualcuno direbbe "ruvidi", ma io do una connotazione assolutamente positiva a questa ultima proprietà). Certo, i primi turni sono stati tragi-comici, con me che tentavo di decifrare domande tipo "Sét dré a fà?", quando andavo a svegliare un signore nel mezzo della notte, o interpretare una vecchietta che mi urlava addosso che io ero "Fò de có". È stata una scuola intensiva di dialetto bergamasco e ora sono in grado di capirlo quasi alla perfezione (non chiedermi di parlarlo, però! Potrei fare qualche figuraccia).

Dalla fitta nebbia della Bassa ti sei poi trasferito, sempre per il tuo lavoro da infermiere, a Zingonia e poi a Pradalunga. Qui ti sei fermato e hai messo su famiglia. Cosa ami della Val Seriana?

Certo, devo ammettere che, a livello ambientale e paesaggistico, le prime due città lombarde in cui ho vissuto, mi hanno lasciato un po' a bocca asciutta. Invece quando ho visto le valli bergamasche è stato un vero e proprio amore a prima vista. Più salivo su e più quell'aria pulita, i panorami, gli odori, i colori, i boschi, i fiumi, le cime rocciose, mi lasciavano a bocca aperta. Io, lupo di mare, che mi innamoravo della maestosità della montagna. Da lì la decisione di trasferirmi in Val Seriana, che ora vedo come una seconda casa. Sono una persona molto attiva, a livello sportivo, e le passeggiate in montagna sono diventate da subito una forma naturale di meditazione attiva, di liberazione dallo stress quotidiano. Un posto dove non ci sono tecnologia né ritmi esasperanti: niente sveglie, lavoro, traffico o smog. Sei solo tu e la natura. Meraviglioso!

Mi raccontavi che quando ti sei sposato in Sicilia, sono arrivati giù ben due pulmini di amici bergamaschi e che, a un certo punto, il maître del ristorante ti ha raggiunto tutto preoccupato perché avevano bevuto tutto il vino che c'era a disposizione. Tu come hai reagito? Ahahaha!

Ahaha! In realtà avevo avvertito il maître che i miei amici bergamaschi erano degli "ottimi bevitori" e, infatti, quando è venuto da me preoccupato, dicendomi che avevano bevuto una quantità industriale di vino, gli ho subito risposto: "Beh? Te l'avevo detto! Va' in cantina e svuotala, se necessario". E così è stato!

Sei un grande appassionato di dialetti. Quali espressioni bergamasche ti piacciono di più?

Ah beh, ce ne sono tantissime. Così, al volo, ti direi:

  • "Barlafüs", per dire buono a nulla, ciarlatano. "Am sè mia barlafüs!"
  • "Delbù", per dire veramente, davvero. "Dìghet delbù?"
  • "L'è mèi ergót che negót" per dire "meglio poco che niente".

Grazie per la tua disponibilità, Simon.
Grazie a te, Arianna.

Per conoscere tutto su Simon potete visitare la sua pagina web:
https://linktr.ee/simondidio

Intervista fatta da Arianna Trusgnach per Chèi de Bèrghem

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